Fuoco e nebbia

Un racconto originale Manuela Fucci

Piegai più volte i fogli e infine li nascosi nel vano dello scrittoio dove custodivo tutte le lettere di Vanessa. Ogni cosa era in ordine; non mi restava altro che prendere il soprabito, infilarmi gli stivali e arrivare a Gordon Square.
La pioggia aveva da poco smesso di bagnare Londra e il sottile strato di umidità aveva lasciato il posto a una piacevole aria primaverile. “Oggi accadrà qualcosa di straordinario”, pensai.
Mi sentivo viva come se mia madre mi avesse partorita una seconda volta. Tuttavia, ogni tanto affiorava una sinistra sensazione, come se una nebbia sottile avvolgesse la mia testa.
Gordon Square era un mosaico di immagini. Scorsi tra la folla una figura filiforme. Avanzava a testa alta, indossava un completo elegante e guardava verso di me. Senza rendermene conto eravamo uno di fronte all’altra e io mi chiesi, non so perché, se fossi abbastanza bella.
«Sono così felice di rivederti, Virginia.»
«Ti devo ringraziare, Leonard» risposi, «se non avessi insistito, forse oggi non avrei messo il naso fuori casa.»
«Sono io in debito con te, Virginia, la tua compagnia è così preziosa per me.»
Poi aggiunse: «Ho approfittato per passeggiare intanto, avevo bisogno di riflettere». La voce gli tremò.
Il suo essere amabile, il modo di vedere il lato migliore nelle cose e nelle persone, aveva cambiato la mia idea di lui in quei mesi precedenti. Se si fosse dichiarato, in quell’istante, non avrei rifiutato una seconda volta.
A un tratto, senza che potessi impedirlo, un terribile pensiero mi paralizzò: tornarono le parole di Vanessa e quella odiosa lettera. Per quale motivo mia sorella mi aveva scritto quelle frasi? Se non si fosse trattato di lei, avrei pensato che provasse in tutti i modi a distogliermi dalla felicità.
A volte, pensai, si teme che i nostri cari riescano a essere più felici di quanto sia toccato a noi.
Con quell’ultima frase scritta in fondo alla pagina, prima del suo nome, mia sorella aveva rivelato se stessa: “Sono molto preoccupata per te. Non prendere decisioni affrettate… ”.
In quei giorni vuoti, in clinica avevo vissuto in un’atmosfera di speranza al pari dell’aspettativa che provavo da bambina con l’approssimarsi del Natale. Io volevo rinascere mentre Vanessa aveva dimostrato solo un’opprimente preoccupazione.
«Sei raggiante, il colore malva ti illumina ancora di più.» Leonard si colorì quel tanto da sembrare un amante alle prime armi.
Mi lasciai guidare, avvolsi il mio braccio intorno al suo e, stretti, ci dirigemmo verso la biblioteca.
Il chiacchiericcio delle persone mi avvolse subito come un velo invisibile. Le donne indossavano abiti dai toni così fulgidi, i bambini si rincorrevano a caccia di pozzanghere.
Era tutto perfetto, pieno di emozioni.
«Ho riflettuto. Ho deciso di rifiutare l’incarico nel Ceylon. Volevo che fossi la prima a saperlo, Virginia.»
Lo guardai con occhi estatici. Aveva deciso di fermarsi a Londra! I nostri visi erano così vicini, le nostre spalle si sfioravano e quasi avrei potuto lasciarmi andare, aggrapparmi a lui.
Eccola lì davanti a me, la vita.
Eppure, lui camminava con gli occhi fissi sulle scarpe e la voce, di tanto in tanto, tremava. Perché aveva tutta quella rigidità sul viso? Mi domandai se Vanessa si fosse affrettata a inviare una lettera anche al suo indirizzo.
Entrambi sapevano che il medico mi aveva vietato lunghe passeggiate, forti emozioni e soprattutto l’amata scrittura.
Nascosi la paura dentro di me.
Arrivammo in prossimità della biblioteca. Sulla sinistra vidi un carrettino da cui straripavano grappoli di fiori. Dissi a Leonard che desideravo comperare un fascio di rose da tenere in cucina.
Mi rispose: «Andrò da solo in biblioteca, non ci metterò molto». Al che io mi fermai e lo vidi allontanarsi a passo svelto. Scomparve nell’edificio.
Per qualche secondo rimasi ancorata alle sue parole e, ogni tanto, lanciavo ansiose occhiate all’entrata della biblioteca. Trascorsero minuti senza che mi decidessi a comprare nulla.
Ero sul punto di avvicinarmi all’edificio, quando sentii tirare l’orlo del cappotto. Abbassai gli occhi e vidi un paio di pupille grandi come biglie. Appartenevano a un bambino.
«Ehi, hai preso la mia pozzanghera!»
Guardai i miei stivali. Avevo entrambi i piedi in uno specchio d’acqua. Anche il ragazzino indossava un paio di scarponi sporchi di fango. Aveva la testa coperta da un berretto sdrucito.
Sollevai subito i piedi per lasciargli tutto lo spazio.
«Come ti chiami, signora?» Tirò di nuovo l’orlo del cappotto e aggiunse un sorriso aperto.
«Te lo dirò, se mi dici prima il tuo nome.»
Mi guardò a bocca aperta. Poi si passò il dorso di una mano sotto il naso e una striscia di muco venne via: «Perché lo vuoi sapere?»
Che fortuna era quella? Avevo appena incontrato uno che sapeva rispondermi per le rime. Non ricordavo più come fosse parlare con la gente normale.
Allungai il braccio per stringergli la mano e gli dissi il mio nome. Mi rispose con il suo: si chiamava Tom. Aveva un paio di occhi color acquamarina di quella qualità grezza.
«Sono certa che sei un ragazzino molto intelligente.»
Lui abbassò la visiera e il mento, e disse: «Ho tanta fame, so-no giorni che non mangio… I miei genitori sono poveri. A casa siamo in tanti».
«Non devi preoccuparti, Tom. Appena arriverà la persona che aspetto, andremo a comprare del pane caldo per te e la tua famiglia.»
«Virginia!» Qualcuno ci interruppe, un timbro forte nel quale riconobbi Leonard. Lo vidi avvicinarsi a noi con la falcata tenace.
Gli andai incontro. Gli dissi che alla fine non avevo comprato nulla.
Leonard mi guardò, prima serio poi si aprì in un largo sorriso. La pelle gli si accese di un colorito caldo.
«Non importa. Ci saranno sempre fiori freschi nella nostra casa.»
Le voci intorno a noi tacquero. Un fuoco violento si accese nella mia testa, senza che potessi controllarlo.
Io, che sapevo sempre trovare le parole con chiunque e in ogni occasione, io, che scrivevo pagine e pagine sui sentimenti degli altri per nascondere i miei, a un tratto non avevo parole. Volevo descrivere la felicità, eppure non ci riuscivo, forse per-ché per la prima volta aveva toccato anche me.
Annuii e lui mi sfiorò la guancia con le labbra.
Poi mi chiese: «Con chi stavi parlando?»
Guardò oltre la mia spalla.
«Ho conosciuto un ragazzino molto intelligente, dobbiamo aiutarlo.»
Mi girai su me stessa per guardare la strada dietro di me, vidi solo la pozza d’acqua. Allungai lo sguardo per scorgere tra la folla il berretto di Tom, quando a un tratto sentii il calore delle mani di Leonard sulle mie, un tocco stanco e pesante. Mi voltai e appena incrociai il suo sguardo, fece quel gesto: mi sorrise, un sorriso di benevolenza.
Un lampo doloroso mi attraversò la testa.
Non c’era mai stato Tom, almeno non nella realtà. Così, le voci mi avevano raggiunta, di nuovo. Con esse rivedevo anche l’immagine del manicomio e dei corridoi dove i pazienti si fermavano per ore, vuoti.
Pensai a Vanessa.
Addio mondo, addio nuova Virginia.
Leonard iniziò a parlarmi. Vedevo e sentivo come se fossi immersa nell’acqua. C’era solo quella voce terribile che ripeteva: “Leonard non sposerà mai una pazza come te”.
Mi sentii stanca, molle.
«Stai tremando, Virginia!» Forse me lo disse più volte.
Ebbi solo le forze per sussurrare: «Non posso sposarti».
Lo lasciai lì.
Mi trascinai fino all’appartamento. Aprii la porta, mi gettai a cercare le medicine. Dov’era finito il mio Veronal? Frugai ovunque, spostai fogli, libri. Corsi in bagno. Mi guardai allo specchio: ero pallida come una pianta che non aveva mai goduto di un giorno di sole.
Qualcuno bussò alla porta.
«Non ora!» Urlai dal profondo della gola.
«Ti prego, Virginia» la voce di Leonard mi sembrò rauca. Mi avvicinai alla porta, afferrai la maniglia.
«Ho rimandato troppo, Virginia. Voglio che tu sappia tutto, adesso; perché temo che se ti lascio andare, ti perderò per sempre. Sono innamorato di te, perdutamente, e correrei qualsiasi rischio pur di sposarti. Ciò che più desidero è prendermi cura di te.»
«Ho paura, Leonard! Non per me. Temo per te. Voglio che tu abbia una vita normale.» Io ero niente. «Non posso sposarti. È tutto finito, anche la scrittura, ormai.»
Come poteva un uomo pratico ascoltare una come me?
«Tu sarai una scrittrice eterna, Virginia.»
I suoi occhi divennero liquidi. «Sposami, Virginia. Saremo la famiglia Woolf.»
Chiusi gli occhi. Mi arrivò profumo di patchouli. Immaginai mia madre seduta in giardino accanto a mio padre, ridevano complici, come erano stati per tutta la loro breve vita. Ma quella non era un’allucinazione.
Le voci tacquero. Leonard e io rimanemmo in silenzio mentre i nostri cuori continuarono a parlarsi.

Il giorno dopo, scrissi una lettera.

Mia cara Vanessa,
avevi ragione tu. Ora ho capito di essere davvero malata. Tuttavia, non posso far tacere il desiderio di vita, e di amore che mi infiamma l’animo. È così forte da vincere su tutto. Leonard è l’unico uomo che sento di poter amare per ciò che la malattia mi permetterà. Non voglio avere nessun rimpianto. Sono certa che riuscirai a comprendermi. La vera follia è non amare.
Ginia


L’autrice

Manuela Fucci, classe 1973, nasce a Napoli dove studia scrittura creativa e legge Virginia Woolf, Italo Calvino, Marcel Proust e Stephen King. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati nelle raccolte edite da Morellini Editore, a cura di Sara Rattaro e Paolo Roversi. Il suo ultimo racconto – Il salto – è tra i vincitori del concorso Racconti nella rete 2023. Collabora, come autrice, per la rivista letteraria Topsy Kretts.


Se vuoi propormi un tuo racconto affinché venga pubblicato in questa sezione del blog, puoi trovare più informazioni QUI.
Un abbraccio magico dalla Strega che scrive

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