“Quanto pago?”
“Sono quattro e cinquanta, bellezza.”
Oggi le era andata bene, per fortuna – aveva speso poco rispetto al solito. Da quant’è che andava avanti quella cosa? Da quando aveva mollato quello stronzetto pervertito? Da quando era stata bocciata all’esame di diritto all’università? Da quando sua madre era finita all’ospedale con la gamba rotta e lei aveva dovuto occuparsi di tutta la baracca – nonna compresa? Non lo sapeva e ormai non aveva nemmeno più tanta importanza. Ogni volta che si trovava in giro con qualche spiccio in tasca finiva a ingozzarsi di cibo fino a sentirsi male, non sapeva neanche lei dire il perché. Era diventata una specie di abitudine: chiudere il portone di casa alle sue spalle, mettersi le chiavi in tasca, vagare alla disperata ricerca di qualcosa da mangiare, fiondarsi in una caffetteria o in un supermercato e ingurgitare più cibo possibile.
Lo stesso accadeva quando si trovava da sola in casa, e ne approfittava per svaligiare la credenza come una tossica in crisi da astinenza. Neanche ci faceva più caso, come non faceva più caso a quello che si buttava in corpo: dolce o salato, caldo o freddo, scadente o pregiato, ancora crudo o già scaduto – l’importante era masticare fino ad avere le mascelle indolenzite, e riempirsi lo stomaco tanto da non riuscire più a respirare.
Ogni volta giurava a se stessa che sarebbe stata l’ultima abbuffata, l’ultima concessione fatta a quella vocina nel cervello che quando si svegliava pretendeva di essere soddisfatta, subito, altrimenti non le lasciava tregua. Ogni volta era una menzogna, e lo sapeva anche lei: sapeva già che non sarebbe riuscita a mantenere la promessa, e la sua mente già figurava di cosa sarebbe andata a caccia per la prossima abbuffata – frittelle, patatine, cioccolata, dolcetti con la crema, gelato con la panna, tramezzini con il formaggio, hot dog, arachidi glassate, biscotti al caramello, cornetti salati.
Prima di rincasare passò in un altro supermercato. Comprò l’ennesimo pacchetto di patatine, un tramezzino confezionato pieno di maionese e tonno e una confezione di würstel con i pochi soldi che le erano rimasti in tasca – aveva fatto il conto prima di arrivare alla cassa per non rischiare che la spesa superasse il suo limitato budget. Conquistato lo squallido bottino, andò a sedersi su una panchina a due passi dal palazzo in cui abitava, poi con gesti esperti aprì prima i würstel e li ingurgitò in pochi morsi, ignorando l’obbligo di cottura indicato sull’etichetta. Mentre riponeva la confezione vuota nella busta del supermercato stava già masticando un boccone del tramezzino, che sparì nel giro di qualche secondo. Infine, si aprì il pacchetto di patatine che divorò a manciate, voracemente. Neanche sentiva il loro sapore – solo il sale che le bruciava le labbra.
Quando ebbe finito anche questa seconda scorpacciata di schifezze, si diresse finalmente verso casa, dove l’attendeva la sua famiglia che ignorava il buco nero in cui stava sprofondando. Nello specchio crepato dell’ascensore, mentre saliva al quinto piano, controllò che non ci fossero briciole né residui di cibo sulla sua faccia o sui vestiti.
Entrò in casa sorridendo, come al solito. Attaccò il cappotto al gancio nell’ingresso e coccolò il cane che era venuto a farle le feste non appena aveva sentito una chiave infilarsi nel buco della serratura. A vederla da fuori, la si sarebbe detta una ragazza normale.
“Com’è andata?” le chiese sua madre.
“Tutto bene” rispose, con nonchalance. “Oggi le ho spiegato gli usi del futuro.” Tornava da casa di Monica, una ragazzina a cui faceva ripetizioni di francese due volte alla settimana per una piccola paga che quasi mai arrivava a casa tutta intera – erano molto più frequenti le volta in cui l’assaliva la voglia di trasformarsi in un compattatore di rifiuti organici.
“Ti ho preparato la pizza per cena” disse la madre, già sparita in cucina.
Era uno dei suoi piatti preferiti, ma lei non aveva più fame ormai. La bestia si era sedata. “Ne mangio solo un pezzetto, perché ho la nausea.”
“Ma si può sapere che hai? È da un po’ di tempo che non hai tanto appetito…”
“Non lo so, forse sarà il caldo.”
Sua madre cercò il suo sguardo complice. “Ma non è che ti sei innamorata, e per questo ti è passato la fame?”
“No, mamma, non mi sono innamorata.” In quel momento aveva solo una gran voglia di vomitare. “Senti, mi gira un po’ la testa e sono stanca. Mi vado a stendere cinque minuti, va bene?”
“D’accordo.” Le fece una carezza sul viso, gradita nonostante tutto. “Ti chiamo quando ci mettiamo a tavola?”
“Grazie.”
Appena fu entrata in camera ed ebbe chiuso la porta alle sue spalle, collassò sul lettino e si mise a piangere, affondando la testa nel cuscino per non farsi sentire. Non c’era giorno che non si facesse schifo, che non provasse ribrezzo per la sua esistenza e per il suo corpo sempre più grasso e flaccido. La cosa assurda era che non aveva una percezione reale della sua condizione, non riusciva a capire se si trattasse di un problema grave, di una patologia clinica, o al contrario di un piccolo vizietto di poca importanza. Il fatto che nessuno lo sapesse, che lei fosse diventata così brava a nasconderla e a gestirla, rendeva la vocina nella sua testa meno strana, in qualche modo più tollerabile. Era come andarsi a fumare una sigaretta ogni tanto, di nascosto da mamma e papà…che c’era di male?
Tutti l’apprezzavano per il suo impegno all’università, per l’aiuto che dava ai suoi genitori nelle faccende domestiche, per il fatto che oltre a studiare si dedicasse anche a qualche piccolo lavoretto, per la generosità che mostrava ai compagni prestando appunti e dispense. E poi era educata, gentile, sempre sorridente e dolce, amava gli animali e la musica classica. Chiunque la conosceva non avrebbe mai immaginato che dietro quell’apparenza angelica si nascondeva una specie di criminale, una depravata con l’ossessione per il cibo. Eppure la voce nella sua testa c’era, e alle volte gridava così forte che si sarebbe tagliata le orecchie come Van Gogh, se solo avesse avuto un po’ di coraggio in più. Quella voce che la spingeva a sperperare i suoi soldi guadagnati con fatica, che la faceva alzare dal letto nel cuore della notte per svuotare la confezione dei biscotti o il frigorifero.
L’incubo sembrava non avere fine. Tutto ciò che poteva fare era stringere i denti e resistere, sperare che quella tempesta di dolore e solitudine passasse da sola il più presto possibile. Magari un giorno avrebbe smesso di cercare nel cibo la soluzione a tutte le sue sofferenze – in quel momento, invece, non riusciva a fare altro.
Ho voluto dedicare questo racconto ai disturbi alimentari, di cui ancora oggi si parla troppo poco. Vi potreste chiedere cosa c’entra questo con l’amore – ma, del resto, scegliere di mangiare o proibirselo, nutrirsi con gentilezza o ingozzarsi fino a farsi male è un atto d’amore verso se stessi, che noi stessi scegliamo di concederci o meno, e le mie “meditazioni del cuore” raccolgono e raccontano ogni forma d’amore.
Questo racconto ha partecipato al contest letterario “Fiocchetto Lilla”, organizzato dalla casa editrice Rudis Edizioni.
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