Bogotà, giugno 2022
Sono una fotoreporter per l’agenzia Reuters. Da sempre vado nei posti più sperduti o pericolosi del mondo per far vedere alle persone quello che io vedo con i miei occhi. Avevo solo diciannove anni quando mi misero in mano una Reflex per la prima volta e mi spedirono a Sarajevo, a fotografare gli stupri delle donne e le stragi di bambini. All’epoca lavoravo ancora per una piccola agenzia stampa americana, ma la sostanza del mio lavoro negli anni è rimasta invariata: arrivare in un posto, scattare foto, ripartire. Nessun coinvolgimento emotivo con ciò che vedevo e immortalavo con il mio obiettivo, nessuna pietà per i cadaveri martoriati, per la povertà che scavava i volti, per le malattie e la sporcizia. Ciò che accadeva davanti ai miei occhi non mi riguardava – era un altro mondo, io dovevo solo darne conto all’umanità.
Una regola sacra, quella di non farsi coinvolgere emotivamente, ne va della sopravvivenza e della salute mentale di noi giornalisti. Vedere le morti, le stragi, la povertà, il dolore e dover rimanere impassibili a tutto questo, guardandolo attraverso la lente dell’obiettivo come la gente dall’altra parte del mondo lo vede attraverso i giornali e i telegiornali, mentre beve il caffè o cena con la famiglia – e non lasciarsi impressionare da niente.
Essere giornalisti obbliga ad assumersi questa e altre pesanti responsabilità. Avete presente quando sta per scoppiare il temporale, e alla TV hanno detto di stare chiusi in casa perché è pericoloso uscire? Ecco, noi giornalisti siamo quelli che escono nella tempesta e lo fanno senza ombrello e senza impermeabile. Siamo quelli che si fiondano nell’occhio del ciclone per viverlo in prima persona, prima di poterlo raccontare. Questo è il nostro mestiere, questa è la nostra vita. Siamo consapevoli dei rischi, ma non possiamo fare a meno di uscire e di andare proprio lì dove si addensano le nubi nere e si prepara l’apocalisse.
Quando ho scelto di iniziare questa carriera mi sono trovata contro l’ostilità della mia famiglia – di mio padre in particolare – perché ero una donna e non me ne potevo andare da sola in giro per il mondo a fare fotografie, rischiando tra l’altro la vita. Dovevo pensare a trovarmi un uomo, a farmi una famiglia normale. Mio padre non sapeva che, in tutto questo vagare ai quattro angoli del globo, io un uomo me l’ero trovato – e lo avevo anche sposato.
Pierre Maillard è stato mio marito fino a qualche ora fa, quando è caduto vittima di un attentato a Kramators’k, nell’est dell’Ucraina. Un missile russo ha colpito l’albergo della stampa e ha ucciso tutti quelli che lì stavano passando la notte – giornalisti, operatori televisivi, interpreti, assistenti. Trentotto persone sono rimaste uccise, fra cui anche mio marito, che era lì per testimoniare la guerra nel cuore dell’Europa.
Ci siamo incontrati per caso facendo lo stesso mestiere, raccontando al mondo la violenza della natura e la spietatezza dell’essere umano – io con le mie foto, lui con la parola scritta all’Agence France-Presse. Quando i nostri destini si sono incrociati io ero ancora poco più che una ragazzetta con lo zaino pieno di sogni e di illusioni, lui aveva già viaggiato abbastanza da perdere ogni barlume di speranza che il mondo potesse essere un posto migliore. E fu proprio il suo crudo realismo, da molti colleghi scambiato per cinismo, a farmi innamorare di lui. Non era particolarmente bello né troppo aitante, ma era vero, autentico, non aveva filtri, viveva la vita con l’ebbrezza di un pazzo, con la consapevolezza che ogni giorno poteva essere l’ultimo.
Ci siamo amati follemente e in modo che non avremmo immaginato, facendo ogni volta l’impossibile per trovarci nello stesso angolo di mondo, per essere inviati sugli stessi luoghi di guerra e di devastazione, ritagliandoci sempre quell’attimo che fosse solo nostro. Siamo stati insieme in Bosforo, Afghanistan, America latina, India, Libano, Unione Sovietica, Jugoslavia. Abbiamo raccontato la disfatta dei talebani e lo tsunami di Haiti, la guerra civile in Albania e le presidenziali in Messico, il crollo del Muro di Berlino e il genocidio in Ruanda. In ogni luogo, in ogni disastro, in mezzo a tanta morte e distruzione, c’era sempre la certezza che noi due ci saremmo salvati reciprocamente.
Quando ci siamo conosciuti c’erano a stento le cabine telefoniche, lunghe telefonate internazionali che costavano un occhio della testa fatte agli orari più assurdi – alle quattro del mattino come alle dieci di sera. Poi sono arrivati i cellulari, e poi Internet, e poi le videochiamate via Skype. Abbiamo seguito trepidanti il progresso della tecnologia e abbiamo sfruttato ogni mezzo di comunicazione per sentirci vicini, ovunque noi fossimo. Lui era sempre con me, lo sentivo sempre al mio fianco anche se a migliaia di chilometri di distanza. Avrei potuto contattarlo in qualsiasi momento, di notte o di giorno, e mi avrebbe risposto sempre con la sua voce profonda e con la sua risata che mi rimetteva al mondo anche se stavo sprofondando all’inferno.
Ci siamo sposati solo cinque anni fa, dopo aver trascorso insieme più di metà delle nostre vite. Non era una cosa preventivata, un matrimonio, non ci avevamo mai pensato – è semplicemente successo. Ci eravamo ritrovati in Tibet – io arrivavo da un reportage nella Corea oppressa dal dittatore Kim, lui era di ritorno dalla amata Borgogna dove era accorso al capezzale della madre morente. In un piccolo villaggio di pastori, in mezzo alle montagne, abbiamo scoperto l’esistenza di un rito nuziale antichissimo secondo il quale, al posto delle fedi, come simbolo di fedeltà e amore gli sposi indossano dei braccialetti di metallo che vengono saldati attorno al polso, in modo che non possano più essere tolti. Abbiamo deciso all’istante che quello era il matrimonio che volevamo per noi – una cerimonia austera e semplice, nessun testimone che conoscessimo, un banchetto nuziale a base di riso e stufato di carne di capra mangiato rigorosamente con le mani.
Non siamo stati una coppia come le altre, non abbiamo mai avuto un posto tutto nostro che potevamo chiamare casa. Con gli anni ho imparato ad aggrapparmi a ogni suo respiro, a ogni piccolo gesto – il suo modo bizzarro di girare il cucchiaino nel caffè, come stesse tracciando una I nella tazza, o la sua fissazione a voler dormire sempre con le tende aperte per svegliarsi con la luce del giorno, o il fatto che dopo ogni bacio appassionato teneva premute ancora le sue labbra sulle mie come a voler imprimere meglio nella memoria il ricordo di quel momento. Tutto questo per me era casa, era famiglia. Tutto questo ora non c’è più, e io mi sento morire.
Al momento sono dall’altra parte del mondo, nella Colombia che festeggia la tanto agognata svolta politica rappresentata dal neoeletto presidente Petro. Sono venuta a fotografare le folle esultanti, i giovani attivisti che si riconoscono finalmente nel nuovo leader, gli anziani con i loro sorrisi sdentati – e invece l’unica cosa che riesco a fare e starmene qui, seduta sul pavimento del bagno dell’albergo, e fissare il vuoto.
Nulla ha più importanza ormai.
Sui portali delle agenzie rimbalzano i nomi e le foto delle vittime dell’attentato in Ucraina – quasi tutti stranieri. Messaggi di cordoglio e di condanna si susseguono senza sosta, mentre oggi in tutta la Francia le bandiere degli edifici pubblici sono a mezz’asta in ricordo dei tre giornalisti morti mentre svolgevano il proprio mestiere.
Il mio cuore è un ammasso di macerie, le stesse che hanno seppellito l’amore della mia vita, l’unico uomo che abbia mai amato. Mi ritorna in mente una volta in cui, alcuni anni fa, io e Pierre avemmo una discussione strana. Avevamo appreso la notizia di un giornalista che era morto in Afghanistan insieme al suo interprete, sotto le bombe dei talebani. In quel momento avevo avuto paura per noi, che quel destino infausto potesse colpire me o peggio lui – non avrei sopportato di perderlo. Io non ti lascerò mai amore mio, ricordo che mi disse, sarò sempre accanto a te – ma non nel modo che vuoi tu. Sarò in un angolino del tuo cervello, in un bicchiere di vino che berrai da sola, nella tasca del tuo giaccone invernale, nel rumore dei tuoi passi, nella scatola dei tuoi ricordi, e saprai dove cercarmi quando avrai bisogno di me.
Mi sembra quasi di sentire la sua voce mentre pronuncia queste parole, la stessa voce che tante volte mi ha detto di amarmi e che ora non sentirò più. Chiudo gli occhi, esausta, e mi lascio annegare nel flusso dei ricordi chiedendomi se riuscirò un giorno a imparare ad andare avanti come lui mi ha chiesto di fare.
Ne è valsa la pena – amarsi in questo modo, lasciarsi distruggere da un sentimento devastante, vivere nella costante paura di vedere l’altro morire e di dover vivere nella perdita? Certo, certo che ne è valsa la pena. Ne varrà sempre la pena.
Di solito non mi ispiro mai così profondamente alla realtà, cerco sempre di raccontarla in modo più discreto, cambiando nomi e situazioni. Tuttavia ho voluto trarre ispirazione dal conflitto in Ucraina ben presente nella mente di tutti per scrivere questo racconto, che è prima di tutto un elogio del mestiere del giornalista. Anche le elezioni colombiane e la vittoria di Gustavo Petro sono fatti reali. Ci tengo a precisare che, se il contesto è reale e attuale, la vicenda relativa all’attentato all’albergo dei giornalisti è frutto della mia fantasia.
Trovate questo racconto pubblicato all’interno della raccolta “Storie d’Amore”, edito da Historica Edizioni. Il racconto è presente anche nella raccolta “Oltre la porta e altri racconti”, che raccoglie i racconti finalisti dell’ottava edizione del Premio Rotary Muratori under 35: ogni racconto della raccolta è stato corredato da un disegno – qui sotto trovate il mio:
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