Come nasce un testo poetico? Che peso ha la poesia contemporanea nel panorama culturale del nostro Paese? Finora non ero mai entrata nel mondo della poesia – se non come lettrice. Le mie curiosità verso questa forma di scrittura e di arte, dunque, erano tante. Ho cercato di approfondire la questione della poesia contemporanea in Italia con un’autrice di testi poetici, Carmen Gallo.
Che cosa vuol dire fare poesia contemporanea in Italia?
Vuol dire avventurarsi in un mondo per certi versi marginale rispetto a quello della narrativa, e attraversato da dinamiche diverse. Per molto tempo, a fronte di un’editoria di poesia spesso poco attenta alla promozione e alla distribuzione, hanno avuto un ruolo importante i cosiddetti lit-blogs – i blog di letteratura e di poesia, che proponevano autori e autrici emergenti accanto a quelli più affermati. Era il periodo in cui il fenomeno nasceva e quindi ce n’erano pochi. Oggi ce ne sono tanti, ma restano comunque molto efficaci per conoscere la poesia contemporanea e far conoscere la propria scrittura.
Spesso, in poesia, gli esordi avvengono con piccole case editrici. Non è più tanto importante la casa editrice con cui si pubblica, le case editrici storiche non sono più garanzia di qualità, e seguire singole collane può forse offrire percorsi più ragionati, più interessanti.
Il fatto di pubblicare con piccoli e medi editori ha vantaggi e svantaggi, ovviamente. Il vantaggio più importante è la grande autonomia di cui chi scrive riesce a godere, nel poter vedere pubblicato il libro proprio come lo voleva. Per contro, una piccola casa editrice spesso non ha grande distribuzione, i libri non si trovano, e talvolta anche piccole realtà editoriali di grande prestigio scompaiono con il loro ideatore. Un esempio è la casa editrice napoletana Edizioni d’if, chiusa dopo la scomparsa della sua proprietaria, Nietta Caridei.
Come dicevo, più della casa editrice in sé, la differenza la fanno i direttori di collana, che garantiscono sulla qualità dei testi e sulla “direzione” della linea editoriale. Questo è il motivo per cui, purtroppo, autori interessanti sono un po’ di nicchia, restano poco noti al grande pubblico.
Più in generale, resiste un’idea di poesia un po’ scolastica, legata ai grandi autori del passato come Ungaretti o Montale. Mentre il cinema e il teatro anche più di ricerca si fa conoscere, in poesia i libri più interessanti e innovativi sono difficili da intercettare. Si pubblica tanta poesia, e ultimamente anche i social ne sono pieni, ma non tutta la poesia che si scrive oggi è contemporanea. Buona parte risponde anzi a quelle aspettative comuni e diremmo mainstream: versi che esprimono buoni sentimenti, scritti in una lingua aulica con immagini convenzionali, ‘astorica’.
Quella è forse poesia, ma non è poesia contemporanea, che ha invece un altro linguaggio, un altro scopo. È un po’ come nella danza: anche senza essere esperti, riusciamo a riconoscere un’esibizione di danza contemporanea da una di danza moderna o classica, o dai lisci che si ballano in una balera. Non c’è giudizio di merito, ma è importante riconoscere che c’è una differenza di linguaggio nella danza contemporanea come nella poesia contemporanea. Familiarizzare con questo linguaggio permetterebbe di conoscere e apprezzare autori e autrici di grande spessore.
Questa concezione aulica della poesia esiste in tutto il mondo?
Credo che in Italia sia più diffusa e radicata, perché in parte legata alla nostra tradizione letteraria. Nel nostro Paese c’è sempre stata grande distanza fra lingua letteraria e lingua della quotidianità, e questa spaccatura ce la portiamo dietro ancora oggi. Lo si vede per esempio anche nelle traduzioni di autori novecenteschi e contemporanei.
Non è raro trovare poesia inglese scritta con una lingua piana e semplice ma tradotta in italiano con linguaggio aulico, altisonante, con un lessico obsoleto. È un circolo vizioso: più gli editori propongono al pubblico un certo tipo di linguaggio poetico – anche in traduzione -, più il pubblico riconosce solo quello come poesia autentica e solo quello vuole comprare.
E allora, si può avere successo con la poesia – anche in Italia?
Certo, certo che sì. Ci sono tanti poeti che hanno iniziato grazie alla fiducia di piccoli editori e si sono poi imposti sul mercato. Un esempio è Alessandra Carnaroli, autrice di poesia sperimentale, che ha una poesia dura, spesso dedicata alla cronaca e in particolare ai femminicidi: ha iniziato con piccole case editrici poi è stata pubblicata nella collezione di poesia “Bianca” della casa Einaudi. È un caso al momento raro, ma magari fa ben sperare.
Questo è solo un piccolo esempio di come si possa avere successo scrivendo poesia – è non è il solo. Certo, magari non si finisce in TV, ma questo potrebbe essere un vantaggio. La buona poesia resta fuori da alcuni circuiti, continuando a mantenere quella marginalità che le permette autonomia.
Che consigli daresti a chi vuole pubblicare?
La cosa che io consiglierei a chi vuole iniziare a pubblicare poesia è quella, innanzitutto, di partecipare a concorsi per esordienti – meglio se non a pagamento, che mettano in palio una pubblicazione, e che danno comunque la possibilità di venire letti da una giuria di esperti. Ad esempio, il festival Pordenonelegge dà la possibilità agli scrittori esordienti di farsi conoscere, ma non è il solo.
Un’altra occasione è data dalle antologie ‘storiche’, che danno spazio di pubblicazione anche a chi non ha mai pubblicato poesia. A questo proposito mi vengono in mente i Quaderni di Poesia Contemporanea, una pubblicazione curata da Franco Buffoni che esce ogni due anni e che ospita, ogni volta, 6/7 autori esordienti – ciascuno con la propria raccolta di lavori poetici.
Come nasce una poesia?
La creazione di un testo poetico è un processo molto soggettivo, che cambia da persona a persona. Sempre più spesso chi scrive poesia concepisce i suoi lavori come libri, e non come singoli componimenti. Anche io, in effetti, ho articolato il mio secondo e il terzo libro di poesia come concept album.
Ho pensato sin da subito a un tema, un’idea attorno alla quale costruire il libro, inteso come un percorso con uno sviluppo interno. Insomma, diciamo che non penso mai a un solo testo, penso a più testi per sviluppare un unico grande tema complesso, che non troverebbe la giusta espressione in una sola poesia.
Perché nei tuoi testi usi sia prosa che poesia?
Prosa e poesia sono due linguaggi fra loro molto diversi, che io utilizzo per esprimere livelli di realtà differenti. I miei versi spesso suggeriscono mondi in maniera fantasmatica, mentre la prosa mi avvicina di più alla realtà, alla materialità dell’esperienza. Per me la dinamica versi/prosa serve a questo: mettere in scena il passaggio da una visione opaca a una visione più concreta del reale.