Riassumere in un articolo la mia telefonata con Bruno Tognolini è stata un’impresa. Questo immenso e poliedrico personaggio – drammaturgo, poeta, scrittore, sceneggiatore televisivo e molto altro – mi ha sorpreso per la sua vivace curiosità, per la sua voglia di scoprire e raccontare il mondo, per il suo trasporto con i bambini, per il suo sguardo allegro e gentile.
Ho conosciuto il signor Tognolini all’ultima edizione del FLIP (Festival della Letteratura Indipendente di Pomigliano d’Arco). Ho assistito al suo incontro con il pubblico dei più piccoli e alla presentazione del suo volume “Rime-Scolare” e ne sono rimasta affascinata.
Così, a margine dell’evento, gli ho chiesto se potessimo fare una chiacchierata sulla sua vita e sulla sua professione. Da bambina cresciuta con la TV dei ragazzi della RAI e con “La Melevisione” (di cui Tognolini è stato ideatore, con Mela Cecchi, e coautore per 11 anni), non potevo lasciarmi sfuggire questa occasione.
Leggi anche: “Innamorati”: raccontare l’amore ai bambini (e non solo a loro)
Qual era il suo sogno? Cosa voleva fare “da grande”?
È una domanda che mi fanno spesso anche i bambini: ma tu volevi fare lo scrittore fin da piccolo? In realtà, non volevo fare proprio lo scrittore, ma volevo fare “qualcosa di bello”. Non avevo una visione già focalizzata su uno specifico mestiere, ma piuttosto una veduta più ampia della mia missione.
Diciamo che, nella mia vena artistica, c’è innanzitutto una componente ereditaria: i miei nonni nuoresi erano suonatori e compositori di forme poetiche sarda (“muttos”, un termine che ha la stessa radice di “motti di spirito”).
Nel percorso verso la mia professione attuale, ci sono altre storie più profonde e oscure che hanno a che fare con la mia balbuzie. La balbuzie è stato un handicap molto duro da affrontare – soprattutto da piccolo e da ragazzo, perché ero brutto, piccolo, occhialuto e balbuziente.
Alle medie la professoressa leggeva in classe i miei temi di italiano, gratificandomi e dandomi il riscatto di cui sentivo il bisogno. Può darsi che la mia professione sia nata da una sorta di meccanismo evolutivo: se scrivo bene c’è questo riscatto pubblico – allora cerco di scrivere sempre meglio.
Del resto, si scrive (o si canta, si danza, si dipinge) per riempire vuoti, o ricucire strappi, o riparare i danni: ero un bambino “danneggiato” da qualcosa (in sardo si dice “ferito dal martello di Dio”) e ho trovato nella scrittura il mio riscatto.
Cosa l’ha spinta a dedicarsi alla letteratura per bambini?
In questa mia decisione il caso si ibrida con la scelta. Dopo quattro anni di medicina a Cagliari, mi sono laureato al DAMS di Bologna e per undici anni ho lavorato in teatro come drammaturgo – ma con molta fatica: gli spettacoli erano bui, tragici e incomprensibili, nessuno ci veniva a vedere, mancavano i soldi.
Questo ci ha spinto a reinventarci e così siamo passati a fare teatro per ragazzi, un’attività decisamente più remunerativa. Con il teatro per ragazzi mi si è aperto un mondo. Mi piacevano le storie, mi piacevano le rime e la metrica. Ho iniziato a scrivere storie con uno sviluppo sano e a intarsiarle di rime.
Insomma, sono approdato al mondo dei più piccoli per caso e per motivi economici ma, quando ci sono arrivato, mi sono trovato proprio bene – e così ci sono rimasto. Ma con un grande dubbio: sono davvero uno scrittore per bambini? Le mie filastrocche piacciono forse di più ai grandi che stanno vicino a loro?
Con gli anni, sono riuscito a trovare una risposta convincente. Sono uno scrittore per bambini perché quando scelgo le parole da usare ho sempre loro davanti, ma il mio linguaggio è adatto e giusto anche per i grandi. Ho avuto dubbi, li ho risolti, ma c’è questa certezza: la gabbia che mi sono dato – scrivere per bambini, usare lessico intenzionalmente semplice e ridotto – è diventato uno stile, il mio stile, e un mezzo di libertà.
Qual è l’obiettivo della Sua scrittura?
Il mio obiettivo è scrivere poesie e storie per narrare il mondo: se lo racconto, lo comprendo, lo ammiro, me ne meraviglio. COM-PRENDERE, ovvero abbracciare tutto con lo sguardo. Io racconto sempre la stessa storia – ovvero il mondo nella sua meraviglia. Come per gli artisti che praticano l’arte come mestiere: con la commissione, l’artista racconta il proprio mondo, dal suo punto di vista.
Lei scrive “poesia su commissione”: può spiegare un po’ meglio le intenzioni dietro questo gesto?
Da quando ho iniziato a scrivere per il teatro e per gli altri, non ho mai più scritto la parola IO. “Io” non mi esprimo – non credo che alla gente interessi di me. Io sono un bambino, io sono il futuro, io sono il domani…
Secondo me, un artista non deve esprimersi (etimologicamente “spingere fuori” quello che tu hai dentro), ma piuttosto il contrario. Egli dovrebbe creare il vuoto dentro di sé per risucchiare il mondo, e poi raccontarlo. Detto ancora meglio, che le opere siano commissionate o meno, io parlo di VOI e – se ci riesco – parlo di NOI (mai di me).
Lei ha lavorato anche per la televisione. Come nasce l’idea per una storia, per un personaggio?
Il teatro di gruppo fatto in gioventù mi ha addestrato a collaborare con gli altri autori per i programmi televisivi che ho curato. Per me scrivere con gli altri è sempre stata una enorme fatica, ma in programmi come “La Melevisione” o “L’Albero Azzurro” si è trattato di una fatica che ha dato ottimi risultati.
Per quanto riguarda il lavoro di autore de “La Melevisione”, io scrivevo le scalette, i progetti di una puntata in sintesi con la divisione delle scene, su un tema dato e secondo norme condivise, con quattro personaggi già scelti e non più di tre set. L’obiettivo era quello di immaginare una storia lunga 25 minuti e divisa in 6/7 scene, ciascuna non più lunga di 2/3 minuti.
Dopo le scalette, c’era il confronto con gli altri autori e la discussione. Lo scopo del confronto era quello di uniformare le puntate, dare coerenza ai personaggi e ai loro comportamenti. Solo alla fine la scaletta si scriveva il copione.
Le esperienze televisive sono state preziose, e mi hanno permesso di raggiungere un pubblico vastissimo che mai avrei raggiunto solo con i miei libri. Noi scrittori per bambini siamo scrittori di nicchia: il nostro pubblico sono i figli di genitori illuminati, che comprano libri ai propri bambini. Grazie a “La Melevisione”, invece, sono diventato scrittore di massa, di fronte a migliaia di bambini.
Cosa vuol dire lavorare nelle classi, coinvolgere gli alunni nel processo creativo?
Inizio specificando che io non faccio laboratori – non per disdegno, ma perché non è la mia maestria. Lascio questo compito a chi li sa fare bene. Io racconto delle storie e i bambini ascoltano, ricalcando un’attività da sempre svolta con i piccoli.
I bambini hanno bisogno di adulti che gli raccontino il mondo, quindi io racconto il mondo attraverso le rime. Non sono forme laboratoriali, ma piuttosto forme di condivisione o di recitazione “di gruppo”.
Alcuni lo hanno definito “l’erede di Gianni Rodari”: si sente a Suo agio con questo paragone? È d’accordo?
Non mi mette a disagio questo paragone, mi è stato detto molte volte. Se per “erede di Gianni Rodari” si sottintende che io guidi un furgoncino rosso con scritto sulla fiancata “Gianni Rodari ed eredi: filastrocche e affini”, allora per me va bene.
Rodari ha aperto un mestiere, un campo editoriale che non era come oggi (c’erano solo poesie edificante e leziose) – quindi sono felice di questa eredità. Da lui ho ereditato anche il modello delle filastrocche dai contenuti educativi, sociali, politici.
Credo però di distinguermi dal suo lavoro perché io sono fin troppo “squadrato” e rigido nella metrica – la sua poesia è molto più libera. E anche lo stile è molto diverso: io ho elaborato uno stile che mutua certo da Rodari, ma che trae linfa anche da Dante, Ariosto, Leopardi (che ho studiato a memoria), dal rhythm and blues, dal rap.
Ma ci andrei piano con la definizione di erede, perché gli eredi spesso annacquano l’eredità: dopo Rodari si è sviluppato un rodarismo malsano, una marea di filastrocche buoniste e politically correct, senza talento (innato), senza maestria estetica né esercizio. A questo proposito, voglio citare Don Milani, che diceva: “Essere fedeli a un morto è la peggiore delle infedeltà.” Essere fedeli a un modello ispiratore è giusto, ma dobbiamo impegnarci a non tradirlo.
NOTA: Vi suggerisco di dare un’occhiata all’immenso portale di Bruno Tognolini, disponibile gratuitamente in rete. Lì è possibile leggere poesie, sceneggiature originali dei programmi televisivi da lui curati, scoprire aneddoti e materiali inediti.