Destini incrociati

18 febbraio 1888

Mio padre era adirato con me, oserei dire furioso, e ne aveva ottimi motivi. La nostra famiglia navigava in cattive acque, dal punto di vista economico, e io avevo appena rifiutato la proposta di matrimonio di un facoltoso gentiluomo di Marsiglia, con cui lui era stato in affari prima della guerra. Mio fratello si era arruolato nell’esercito e mio padre, a causa della sua malattia, non riusciva più a lavorare tanto. I soldi erano pochi, e il matrimonio che mi si era prospettato innanzi avrebbe potuto risollevare le sorti della mia famiglia. Ma io avevo rifiutato la proposta, e mi ero mostrata maleducata e scurrile con monsieur Dupain, che aveva omaggiato la nostra umile dimora portando un capretto che aveva ucciso personalmente in una battuta di caccia fuori città. Era vecchio, zoppo e ignorante, e il suo alito aveva un odore sgradevole. Il fatto che fosse molto facoltoso, mi ripetevo per convincermi che avevo fatto la scelta giusta, non era un buon motivo per farlo diventare mio marito e per costringermi a passare tutto il resto della vita con lui.
A questo pensavo mentre percorrevo barcollando la carrozza del treno che da Lille mi avrebbe portato a Parigi, alla ricerca del posto che mi era stato assegnato. Quando lo ebbi trovato, mi accasciai con poca eleganza e presi subito dalla mia borsa il libro che stavo leggendo, Uno Studio in Rosso – avevo bisogno di evadere dalla realtà e allontanare la mente da quei pensieri nefasti. Era una specie di romanzo investigativo, anche se non avevo capito ancora se fosse o meno di mio gradimento. Ero solo alle prime pagine, lo avevo appena preso in biblioteca.
Mi immersi nella lettura, cercando di dimenticare la tragedia che avevo lasciato a casa e di concentrarmi solo sulle parole scritte, e non mi accorsi del giovane uomo seduto proprio di fronte a me, che continuava a fissarmi indisturbato.
“Bel libro. Ottima scelta” disse a un tratto. “L’ho già letto, sa?”
Chiusi il libro, lasciandoci il dito dentro per non perdere il segno. “Credo si sbagli, monsieur. Non è possibile che lo abbia già letto, è stato appena tradotto dall’inglese e il bibliotecario mi ha detto che è arrivato solo da pochi giorni ed è arrivato in biblioteca solo da pochi giorni…”
“Si dà il caso che io sia appena tornato da Londra, e abbia avuto modo di leggerlo lì, in lingua originale.”
Quell’approccio sfacciato e insolito aveva tutta la mia attenzione. Gli chiesi se avesse affari oltre la Manica.
“Ho uno zio che ha da poco aperto un ristorante di cucina francese proprio nella capitale” rispose beffardo “e vorrebbe assumermi a lavorare con lui.”
“Buon per lei. Le auguro tanta fortuna.” Piegai la testa a mo’ di inchino prima di tornare alla mia lettura – non era opportuno per una gentildonna come me intrattenere una conversazione con uno sconosciuto, ma di tanto in tanto con lo sguardo lo spiavo al di sopra le pagine per vedere cosa stesse facendo. Era un personaggio stravagante, non c’era che dire. Sembrava fosse inquieto: si affacciava a vedere il paesaggio che correva fuori dal finestrino o gettava un’occhiata agli altri passeggeri della carrozza, prima di tornare a guardare me. Il suo sguardo diretto e senza censure era a dir poco sconveniente.
“Vuole che glielo dica?” tornò a interrompermi senza educazione.
“Come scusi?”
“Vuole sapere chi è l’assassino?”
Sollevai il naso dal libro per guardarlo con lo sguardo più truce che riuscii a mettere su. “No, grazie. Preferirei scoprirlo da sola.”
“Come vuole.” Si ributtò sullo schienale del seggiolino in modo poco consono a un gentleman inglese, o francese. “A proposito, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Robert Masson, ma può chiamarmi Rob. E lei sarebbe?”
“Mademoiselle Turette.”
Mademoiselle Turette” mi fece eco con fare canzonatorio. “E di nome? Potremmo diventare intimi, se me lo concede.”
“Isabelle.”
Mi tese la mano a cercare la mia per portarla alle labbra e baciarla sul dorso. “Incantato, Isabelle.” Indugiai con lo sguardo sul suo volto, su quei tratti un po’ spigolosi e severi che la luce del sole, filtrando dal vetro del finestrino, rendeva più evidenti. Non era bello, non era vestito in modo elegante né mi aveva dato l’idea di essere un esperto di buone maniere – eppure ero rimasta colpita da lui in modo inaspettato. Il suo sguardo, fisso a sostenere il mio, mi aveva fatto sentire per un attimo nuda. Era assurdo, visto che non ci eravamo mai incontrati, ma mi sembrava che ci conoscessimo da sempre. Non sapevo come fosse possibile ma, al confronto con il vecchio monsieur Dupain, monsieur Masson appariva molto più vicino al mio ideale marito – sembrava naturale che lui potesse conoscere tutto di me, e io di lui, in modo profondo, totale.
Per un attimo mi domandai se non ci fosse per caso una madame Masson, a Londra o a Parigi, o se uno spirito libero e indipendente come il suo fosse finora rimasto insensibile al fascino femminile, ma mi pentii all’istante per quelle riflessioni che non mi appartenevano affatto. Per fortuna, proprio in quel momento il controllore attraversò la carrozza invitando le persone che dovevano scendere alla stazione di Parigi a prepararsi. Raccolsi in fretta i miei pochi bagagli, infilando il libro galeotto dentro la borsa, e mi avviai in fretta alla porta senza voltarmi indietro.


24 aprile 1949

“Che vuol dire che non c’è? Potrebbe controllare meglio, per favore? Robert Masson…vuole che glielo scriva?”
L’uomo davanti a me, all’ufficio Poste e Telegrafi di Lille, dava l’idea di stare per esplodere dalla rabbia. Continuava a ripetere il suo nome – Robert Masson – all’impiegata occhialuta che sembrava esausta di ripetergli che il telegramma che stava cercando non era arrivato, o forse si era perso.
“Ma come si è perso?” urlò monsieur Masson, su tutte le furie. “Si tratta di una comunicazione importante da Londra, è una settimana che l’attendo. Ma perché ne sto parlando con lei – cosa vuole che ne capisca! Probabilmente non ha mai messo il naso fuori da questo minuscolo e spocchioso paesino.” Diede un pugno sulla scrivania dell’impiegata prima di voltarsi e falcare a grandi passi l’ufficio postale, diretto all’uscita, mormorando qualche sconcia imprecazione. Era così preso dalla foga che neanche si accorse del libro che era scivolato via dalla sua cartella aperta, poco prima che varcasse la soglia.
Mi alzai immediatamente per raccogliere quel volumetto rovinato, con le pagine aperte sul pavimento – non sopportavo l’idea che la cultura venisse bistrattata così. Era una copia tascabile de Uno Studio in Rosso, che aveva visto tempi migliori prima di finire nelle mani di quel troglodita cafone e maleducato. Era uno dei miei libri preferiti e fui tentata di tenermelo, immaginavo che al suo proprietario non importasse granché di quella perdita, ma poi notai che come segnalibro c’era una banconota da cinquanta franchi. Non potevo tenermi il libro e i soldi, avrebbe significato rubare.
Sperando che non fosse già andato troppo lontano mi precipitai fuori, dimenticando per un attimo i biglietti pasquali che avrei dovuto spedire per conto di mia madre. Lo trovai proprio di fronte all’ingresso, appoggiato a un palo della luce, che si accendeva una sigaretta.
“Monsieur Masson” lo chiamai mentre attraversavo.
“Cosa c’è?”
“Ha perso questo, prima, nell’ufficio postale.” Gli porsi il volume con la copertina sgualcita. “Credo le sia scivolato dalla borsa.”
Masson fissò prima il libro e poi me, come se non avesse ben chiaro di cosa stessi parlando. “Grazie” disse soltanto, tirandomi via il volume dalla mano. “Scusi, ma oggi è una giornataccia.”
“L’ho immaginato, da come si è infervorato prima.”
“Di solito non sono così maleducato” si giustificò. “Ma è che sto aspettando una risposta da Londra in merito a un lavoro per cui mi sono proposto, e purtroppo qui in Francia gli uffici non fanno mai il loro dovere.”
“Capisco.” Non volli chiedere di più, per non apparire impicciona e pettegola, ma al tempo stesso quell’uomo sconosciuto stuzzicava la mia curiosità e il mio interesse. Era come se sapevo già, a livello inconscio, che noi due saremmo potuti essere buoni amici – almeno ci piacevano le stesse letture. “Di cosa si occupa?”
“Sono un cuoco, o almeno ci provo. E lei?”
“Io insegno alla scuola elementare, qui a Lille.”
“Ha mai pensato di andare via da qui? Non si sente mancare l’aria in questo piccolo borgo?”
Non ci avevo mai pensato prima di allora. Non avevo mai accarezzato l’idea di lasciare Lille e di trasferirmi in un’altra città – cambiare Paese, poi, era fuori discussione. “Mi piace quello che faccio, lavorare con i bambini e tutto il resto. E mi piace Lille, non credo che mi troverei bene in qualche altro posto.”
“È perché non ha ancora conosciuto il resto del mondo, madame. Mi creda, una volta che vede cosa c’è fuori, non vorrà più tornare in questa gabbia.” Indugiò per un momento con lo sguardo su di me, prima di fare un passo indietro e congedarsi con un piccolo inchino.
“Addio, monsieur Masson” gli risposi.
“Rob” mi corresse con un piccolo sorriso.
“Isabelle” risposi, stringendo la mano che mi stava tendendo. Mia madre mi diceva sempre di stare alla larga dagli sconosciuti, soprattutto se erano uomini, ma volli per una volta ignorare quella raccomandazione. Non sapevo dire neppure io come, ma mi sembrava che ci conoscessimo da sempre, che ci fossimo sempre conosciuti. “Le auguro il meglio a Londra.”


9 dicembre 2018

Entrai nello nella sala d’aspetto affollata e mi sedetti nell’unico posto rimasto libero, in mezzo a un mare di vecchi. Da giorni avevo una terribile tosse e non riuscivo a respirare, e un amico di famiglia mi aveva consigliato di farmi visitare dal dottor Delors, il miglior pneumologo qui a Lille. Dopo aver tentato rimedi naturali vari e aver assunto un’intera scatola di fluidificante per i muchi, alla fine mi ero decisa ad andarci perché la settimana successiva sarei finalmente partita per Berlino con la mia migliore amica. Non avevo alcuna intenzione di portarmi quella tosse canina nel bagaglio a mano.
Ero seduta accanto a un giovane intento a raccogliere monetine dorate nel videogioco sul suo cellulare – non particolarmente bello, e neppure ben vestito, ma che mi colpì subito. Aveva un’aria familiare, ma non ricordavo che ci fossimo mai incontrati. In una cittadina piccola come Lille, in cui l’età media è settant’anni, era strano incrociare un coetaneo con cui non si aveva condiviso l’asilo, il catechismo o l’oratorio – per questo il fatto di non averlo mai incontrato era ancora più sospetto.
Quando si fu stufato di raccogliere le monetine, mise via il cellulare e si diede un’occhiata in giro, accorgendosi finalmente della mia presenza. “Ma c’è sempre tuta questa folla qui?” mi chiese, non nascondendo il suo fastidio.
“Non saprei, è la prima volta che ci vengo.” Era uno studio associato, e in quella sala d’aspetto erano riuniti i pazienti di medici diversi – ma c’era comunque troppa gente perché fosse tollerabile.
“Che devi fare?” chiese ancora.
“Ho appuntamento con il dottor Delors. E tu?”
“Io devo parlare con la dottoressa Moreau. Ho bisogno che mi rinnovi il certificato per partire. Sai, io vivo a Londra – da sei anni ormai, da quando ho finito il liceo. Lavoro come cuoco in un ristorante.”
Doveva essere per questo che non lo avevo mai visto prima di allora.
“Sono venuto qui solo per risolvere delle questioni burocratiche” proseguì. “La settimana prossima torno dall’altra parte della Manica.” Passò poi a snocciolarmi i soliti cliché sul fatto che all’estero si trova sempre lavoro, che rispettano i giovani, che danno opportunità a chi vuole farsi strada nel mondo. A Lille non c’era futuro per noi, disse, non funzionava nulla. “Non pensare che a Londra si faccia un’ora di fila dal medico per una spocchiosa firma su un documento” aggiunse, indignato.
Ero stata a Londra anni prima, ma solo per un breve viaggio di piacere. Non avevo avuto bisogno di un medico, per fortuna, quindi non seppi replicare.
“Tu cosa fai?” mi chiese.
“Sono all’ultimo anno di università, faccio lingue.”
“Benissimo” approvò. “Se vuoi trovarti un lavoro serio, con uno stipendio degno di questo nome, te ne devi andare da qua – e le lingue sono un ottimo modo per iniziare.”
Era quello che pensavo anche io, ed era il motivo che mi aveva spinto a intraprendere quella carriera accademica, ma non volli concordare con lui in modo esplicito. “Non so ancora cosa voglio fare dopo, in realtà” dissi invece.
“Ascolta il mio consiglio, appena hai finito fai la valigia e vai fuori dalla Francia.”
La nostra allegra conversazione sul tracollo economico del Paese fu interrotta dalla segretaria del dottor Delors, che mi informava che era arrivato il mio turno. Mi congedai brevemente dal mio sconosciuto interlocutore e mi incamminai nel corridoio, certa che non lo avrei mai più rivisto.

E invece lo vidi una sera che tornavo dalla palestra, i Radiohead nelle orecchie e una insolita malinconia nel cuore. Era seduto al tavolino di un bistrot con una ragazza bionda, mangiavano patatine con la fonduta dalla stessa ciotola. La bionda, che vedevo di spalle, era tutta intenta a raccontare qualche aneddoto della sua vita o forse qualche pettegolezzo, e si muoveva in modo sinuoso agitando la lunga chioma chiara sulle sue spalle. Mi accorsi però che lui non la stava ascoltando, e neppure guardando: i suoi occhi erano schizzati veloci a cercare i miei per rinsaldare con quel muto contatto la connessione che avevamo già sperimentato allo studio medico, quando ci eravamo incontrati per la prima volta. Il momento passò in fretta, e ognuno tornò alla propria vita. Ma ciò che c’era stato, che non poteva essere spiegato a parole, mi aveva lasciato un profondo turbamento nel cuore. Ero sconvolta, e nei giorni che seguirono mi ritrovai a pensare spesso a lui mio malgrado, a quello sguardo che mi aveva scavato dentro, a quel volto senza nome che conoscevo da sempre. Dovevo ritrovarlo a tutti i costi, parlarci, sapere se anche lui aveva sentito quello che avevo sentito io, se anche lui aveva l’impressione di conoscermi da sempre e di sapere già tutto di me.
Chiesi ad amici ed ex-compagni di scuola se lo conoscessero, se potessero darmi qualche informazione in più su di lui, e mi sentivo ridicola in questa indagine che non mi stava portando da nessuna parte – se non direttamente al manicomio. Era come avere in mano una mappa senza nomi, perché di lui non sapevo nulla, neanche il nome di battesimo: mi aveva detto in quale quartiere di Lille abitava, sapevo che aveva passato sei anni a Londra a fare il cuoco, e dai conti che mi ero fatta doveva avere più o meno la mia età, avevo visto un tatuaggio colorato che usciva dalla manica sinistra della giacca – non avevo neppure fatto caso a ciò che rappresentasse. Le mie informazioni su di lui finivano qui e, con esse, le speranze di rintracciarlo. Percorsi le strade di Lille per settimane nella folle speranza di rincontrarlo, ma sembrava sparito nel nulla, risucchiato dal tessuto urbano come lo era stato per tutti questi anni in cui c’era stato ma non lo avevo mai visto. Alla fine, mi rassegnai all’idea che fosse tornato a Londra, come aveva detto e che la sua partenza fosse stata solo ritardata.

Un giorno, inaspettatamente, lo incontrai ancora di fronte alla scuola che avevo frequentato da piccola. Ebbi un momento di esitazione e non seppi cosa fare o dire per non sembrare un’idiota. Pur avendo passato settimane a cercarlo, scelsi di fare finta di non averlo riconosciuto e non mi fermai, proseguendo in silenzio per la mia strada. Lo avevo già superato quando mi sentii afferrare per un polso.
“Aspetta un attimo, Isabelle” mi disse.
Mi bloccai all’istante e mi si gelò il sangue nelle vene. “Come fai a sapere il mio nome?”
“Non lo so – è come se ti conoscessi da sempre, non so spiegarlo.”
Era la conferma che cercavo: eravamo in due a provare quella strana sensazione di déjà-vu.
“Chi era la ragazza con cui ti ho vista l’altra volta?” gli chiesi con un filo di voce, pentendomi all’istante di quella domanda così a bruciapelo che mostrava tutto il mio interesse per lui.
Mi sorrise, divertito. “Ha importanza?”
In effetti no, non ne aveva. Nei suoi occhi leggevo ogni risposta, fugavo ogni mio dubbio, non c’erano anfratti in cui la verità potesse giocare a nascondino. “Dimmi come ti chiami.”
“Robert – Rob.”
“Ciao, Rob.” Finalmente ora il suo volto impresso nella mia mente aveva anche un nome.
Mi prese il volto fra le mani e mi baciò, senza aggiungere altro, e mi resi conto che il suo sapore mi era già ben noto. Ero certa di amarlo, senza sapere nulla di lui: non lo conoscevo eppure qualcosa mi diceva che potevo fidarmi, che io e lui eravamo fatti per stare insieme, che i nostri destini erano nati per incrociarsi.

Più tardi, mentre eravamo a casa sua e io mi lasciavo spogliare esponendomi a una pioggia di dolcissimi baci, notai un libro antico in bella mostra sulla sua scrivania. Lo fermai, e mi avvicinai al volume. Era una copia de Uno Studio in Rosso, la prima indagine di Sherlock Holmes.
“Cosa ti prende?” chiese Rob, percependomi distratta.
“Questo libro è stupendo.”
“Ti piace? Lo avevo comprato per mia madre, in realtà, ma non ho ancora avuto modo di darglielo da quando sono tornato. Se vuoi, puoi prenderlo tu.”
Lo presi in mano, sfogliandolo brevemente prima di rimetterlo a posto. “È un’edizione antica” constatai.
“Boh, forse è una delle prime. Ma perché ti interessa tanto?”
“È uno dei miei libri preferiti in assoluto – credo di averlo letto una decina di volte.”
Mi tese una mano, intenzionato a rimandare la conversazione sui miei gusti letterari a un altro momento, e mi attirò di nuovo nel circolo delle sue braccia, là dove appartenevo.


Questo racconto ha partecipato alla 33esima edizione del Premio letterario nazionale “Trichiana Paese del Libro”, dedicata al tema dell’incontro.

Iscriviti alla mia newsletter per ricevere ogni mese un racconto in anteprima da scaricare gratuitamente.

Torna alla pagina dei racconti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *